CRISTINA, LA BOLLA CRISTALLINA
(fiaba dedicata a quanti amano la musica)
C’era una volta una minuscola bolla di sapone che se ne stava pigiata, insieme alle sue sorelle, nel contenitore colmo di acqua insaponata. Era stanca del buio e aveva una gran voglia di volare libera nel cielo, inseguita dagli sguardi esultanti dei bambini. Ma il tempo passava e nessuno si ricordava di lei. Avrebbe desiderato divenire d’un tratto grande e trasparente come una mongolfiera! Così avrebbe potuto portare a spasso tutti i sogni dell’infanzia, riflettere gioie e dolori del mondo, e intanto cogliere al volo le mille melodie che si levavano dalle finestre delle case, spalancate nell’aria tersa del mattino.
Cristina amava molto la musica e avrebbe dato chissà che cosa pur di sfiorare almeno una volta i tasti di un pianoforte o danzare lieve al ritmo armonioso dell’universo… Invece doveva accontentarsi di stare imprigionata in un piccolo cilindro di plastica, che non le offriva alcuna possibilità di movimento e nel quale si sentiva soffocare.
Un giorno intravide un tenue spiraglio luminoso. Una cannuccia s’insinuò perentoriamente nel cilindro, facendole il solletico, quindi aspirò la gocciolina a cui lei era impigliata.
Cristina sentì una violenta corrente d’aria pizzicarle il collo: era il soffio di una bimba che, senza tanti complimenti, la stava spingendo verso l’esterno. La bollicina si fece via via più grande, fino ad assumere le dimensioni, se non proprio di una mongolfiera, almeno di un palloncino. Poi si staccò pian piano dalla cannuccia, accompagnata dalle esclamazioni stupite di Miriam, la sua liberatrice, che rideva felice, mentre badava a non perdere di vista la creatura più riuscita che le fosse mai capitato di produrre. Per un certo tempo la piccola poté seguire la bolla con lo sguardo, ma poi questa le sfuggì all’improvviso, tanto che Miriam credette che si fosse infranta contro il ruvido muro del cortile.
Si rassegnò presto all’idea, come fanno quasi tutti i bambini alle prese con i loro piccoli dispiaceri, e cominciò a dedicarsi con pari impegno ad un altro dei suoi fragili, trasparenti capolavori.
Intanto la magnifica bolla vagava leggera nell’aria, rispecchiando alberi, nubi e farfalle. Finalmente si sentiva felice!
Viaggiò a lungo, sospinta dalla brezza primaverile, finché le si parò dinanzi un grande cancello, con le inferriate a forma di chiave di violino. Chiuse gli occhi, consapevole di essere sul punto di dissolversi.
Quando li aprì, anziché spiaccicata contro l’improvvisa barriera, si trovò in un luogo bellissimo, una specie di paradiso terrestre. Ma non era il paradiso delle bollicine, come credette in un primo tempo. Quello si trova, a quanto sostiene la pubblicità, in una bottiglia di bibita scura che a molti fa davvero l’effetto dell’acqua e sapone, a giudicare dal sapore!
Cristina, la bolla cristallina, non era morta, come aveva pensato in un primo tempo. Era viva e vegeta, tanto che si sentiva pizzicare dall’aria frizzante, mentre udiva in sottofondo una musica dolcissima, al ritmo della quale prese a
danzare come una libellula, riflettendo di volta in volta le note contenute nella melodia.
Dov’era capitata? Lo chiese ad un grazioso volatile che passava di lì, emettendo armoniosi cinguettii. Per tutta risposta, quell’essere dalla voce singolarmente melodiosa le rubò al volo un fa diesis col becco, quindi intonò con voce impostata: “Benvenuta a Musilandia, il paradiso delle note!”.
“Chi sei?”, domandò Cristina, indignata per aver perduto una nota così importante.
“Sono la Gazza Ladra, non lo vedi?”, ribatté quella ridendo. “Sono figlia di uno dei più grandi compositori d’opera, un certo Rossini. Lo hai mai sentito nominare?”.
“Certo”, replicò piccata la bolla, “non sono poi così ignorante, anche se al momento mi vedi con la testa per aria! Anzi è’ un musicista che amo particolarmente. Ma, dimmi, che genere di persone abita in questo strano paese?”.
“Non siamo persone”, la derise bonariamente la Gazza. “Sei approdata, mia cara, nel regno degli animali cui sono intitolate le più belle sinfonie di musica classica. Vedi, ad esempio quel meraviglioso uccello che vola ad ali spiegate nel cielo del tramonto?
E’ l’“Uccello di fuoco” di Stravinskj, forse il pennuto più ammirato del globo”.
Cristina era al settimo cielo: finalmente poteva contemplare da vicino i protagonisti delle sue sinfonie preferite!
“Chi è invece l’uccello equilibrista che se ne sta appeso a testa in giù, all’ingresso di quella grotta oscura?”, chiese con voce petulante.
Il presunto uccello, che pareva dormisse, si riscosse rabbrividendo e la squadrò indispettito dall’alto in basso: “A quanto vedo sei una creatura leggera, per non dire superficiale. Non sono un uccello! Appartengo alla specie dei chirotteri. Se lo vuoi sapere, hai l’onore di parlare con il Pipistrello di Strauss!”.
“Mi scusi, Sua Altezza”, sillabò confusa la bolla Cristina e mormorò tra sé:”Non ha tutti i torti: per leggera sono leggera, ma poteva anche evitare di spifferarmelo sul naso! Anche se, a ben considerare, non ho naso né protuberanze di sorta”, soggiunse la bolla ballerina, che si vantava della sua pelle liscia e trasparente.
“A parte tutto”, esclamò con impeto, “questo è davvero un bel paese!”.
Con la testa sempre più tra le nuvole per l’emozione, passò in rassegna la schiera di animali presenti in quel luogo magico, quasi un “giardino segreto”, situato al di là del cancello fantasma che aveva poco prima attraversato!
Ebbe così il piacere di conoscere la teoria dei Cigni, vaganti nel famoso “Lago” di Ciajcoskj, e il dispettoso lupacchiotto protagonista della fiaba musicale “Pierino e il lupo” di Prokofiev.
C’era poi tutto uno zoo singolare, in cui si esibivano, come in un circo, alcuni bizzarri personaggi, scaturiti dall’estro di Saint Saen, compositore francese divenuto celebre per il suo “Carnevale degli Animali”, qui rappresentati al gran completo.
Non mancava neppure, scortata da ben <44 Gatti>, in fila per sei col resto di due, come indicato in una nota canzoncina per bambini, di un cantautore genovese tuttora molto conosciuto. Non faceva parte del manipolo dei “sinfonici”, è vero, ma era pur sempre un classico, a suo modo…
Poiché la in questione, con la sua macchia nera sul muso, se ne stava in disparte, un po’ imbronciata, Cristina le si avvicinò per farle una carezza, ma la Gatta, selvatica come tutti i felini, le porse maldestramente la zampetta, graffiandole la pelle trasparente e delicata, di cui andava tanto fiera.
Così la bolla Cristina si dissolse in una lacrima, ma era una lacrima di gioia!
Può sembrare strano, ma, nell’atto di scomparire, si sentiva lieta di aver compiuto quel viaggio incantato e suggestivo.
La musica è fonte di gioia, anche se non dura all’infinito.
SUONI DELLA NATURA
La musica del vento
che scuote l’agrifoglio
con tenero lamento …
La musica dell’onda
che batte sullo scoglio
con forza furibonda …
Il passero intonato
che rende allegro il campo
il fresco bosco e il prato …
Il tuono alto nel cielo
che sempre segue il lampo
ed eccita il pensiero …
La grandine impetuosa
che frusta il bel nocciolo
e sbriciola la rosa …
Il suono della goccia
che bagna lieve il suolo
e scava anche la roccia …
… Suoni della Natura,
che allietano la mente
di ogni creatura,
meravigliosamente …
Norberto Mazzucchelli
COSA RESTA DI NOI
L’angoscia dà forma al dubbio, ormeggia labirinti
disvela amarezze che toccano la mia solitudine.
Ieri l’attesa odorava di pane, i tuoi baci commuovevano i muri
e i passi senza orario tracciavano la via al desiderio.
Cosa resta di noi?
Forse un segreto dove ti nascondo,
o questo sperpero di parole che continuano ad evocarti.
Dove sei?
La stanza ha sete del tuo corpo
fora una lacrima che gioca a fare il mare,
le mani inghiottono rimpianti, mi chiedono di te.
Fuori il sole imbavaglia una rondine, deforma il giorno
investe di luce un fiore.
Un clacson schiara di vita la via,
mescola insonnia e caffè, mentre tu sradichi le mie ossa
e indifferente torni a scorrermi sottopelle.
Sergio D’Angelo
LA VOCE DEL FLAUTO
La voce del flauto
è dolce e sapiente
La nota più bassa
va in fondo ai pensieri
anche quelli esitanti
dei cuori senza slanci
Il re fermo e sicuro
nei duri imprevisti
dona una calma
accordi che rassicurano
Il sol rimane sospeso
vicino alla donna
che non può muoversi
e canta con voce convinta
Il la si commuove
vedendo la bambina
che abbraccia il fratello
rimasto inespresso
Il si oscilla e accompagna
l’uomo che fugge
e non sa da che parte
andare veramente
Le note più alte disorientano
con tono leggero
chi guarda dall’alto
uomini e storie
La voce dolce del flauto
non esclude nessuno
va oltre le parole
che non dicono nulla
Antonio Chiades
LE ORECCHIE DEL CUORE E DELL’ANIMA
“C’è una porta nel mondo dei bambini da cui si intravede l’universo, un mondo immacolato fatto di generosità e sorprese. Non è facile trovare la chiave di questa apertura incantata, ma una volta avuta non si perde più. Basta un solo giro nella toppa ed ecco apparire come per magia tutto ciò che abbiamo sognato e desiderato, sia esso fatto di marzapane o di note”. Maestra Modestina.
Avevo 8 anni e avevo finito di frequentare la seconda elementare. Lei si chiamava Modestina e in quella prima lezione mi fece disegnare la mia mano seguendone i contorni e poi, sulla sagoma, scrisse i nomi delle note dei righi sulle dita, e i nomi delle note degli spazi tra un dito e l’altro. Io la guardavo stupito e incuriosito. Allora lei disse, lentamente e scandendo ogni sillaba: “Ec-co, ve-di? O-ra pos-sie-di il pen-ta-gram-ma mu-si-ca-le in u-na ma-no! Fan-ne bu-on u-so!”
Modestina divenne la mia maestra di musica. La vedevo ogni giorno e in ogni momento libero desideravo correre da lei.
Imparai prima la lettura rapida delle note e poi il solfeggio. In 6 mesi sapevo suonare il violino. Modestina diceva che ero un portento. Che per me era facile imparare. E per lei insegnarmi. Tutti quegli studi sulle 4 corde a volte erano noiosi, ma quando riuscivo a trovare l’intonazione giusta, il suono rotondo, la nota che per ore avevo cercato, l’accordo o la melodia provate a ripetizione… Allora esultavo e nessuna fatica mi era avversaria!
Nel giro di un anno suonavo Tartini e improvvisavo abbellimenti, cadenze e virtuosismi degni di un Paganini e quant’altro previsto nella storia del violino.
Quando compii 9 anni la maestra di musica mi regalò un violino nuovo, arrivato dai maestri liutai di Cremona direttamente per me, costruito sulle mie misure di bambino che ancora giocava con le macchinine, ma che aveva nella testa il Trillo del Diavolo e sognava il teatro della Scala di Milano, la Fenice di Venezia, e la Chiesa della Rotonda del suo paese. E lì si vedeva già col vestito scuro da concerto eseguire, in una platea gremita, i brani più ricercati. Mia madre mi regalò un piccolo cuscino
di velluto rosso che aveva confezionato con le sue mani e che si appoggiava alla mentoniera per alleviare la fatica dello studio.
Un giorno arrivò una notizia. Modestina, che aveva un’accademia di musica, era stata invitata a partecipare con le sue scuole di violino e pianoforte ad un concorso al teatro della provincia. Non credevo che la mia maestra avesse pensato a me ma ci speravo. Pensavo che la musica non dovesse rimanere dentro me, ma che dovesse uscire fuori, come fa la voce quando parliamo e vogliamo dire qualcosa. Come fanno le lacrime quando soffriamo, come fa il volto quando mostra un’espressione aldilà delle parole, come fa il sorriso quando illumina la faccia, come fa un neonato quando piange perché ha fame e vuole farlo capire. Io volevo mostrare la mia musica, quella che stava dentro me, volevo far sentire la mia musica e ciò che sentivo per lei e il mondo. E volevo che il mondo la sentisse, col cuore e con l’anima, oltre e prima che con le orecchie.
Arrivò la sera in cui dovevo esibirmi al concorso. Ero grato alla mia maestra di avermi regalato quell’occasione. L’emozione era palpabile nell’aria. C’erano tutti ad ascoltarmi. C’era anche il mio adorato papà. Solo che mi guardava da lassù. Ma si sa, l’acustica è migliore quando la musica si ascolta da lontano. E mio papà ne sapeva qualcosa, perché era stato un direttore d’orchestra, e io ero fiero di lui. Suonai accompagnato al pianoforte da Maddalena, una bambina di un anno più grande di me. Non arrivammo primi, ma secondi, e la gioia fu anche maggiore, perché c’era tempo per studiare ancora verso i migliori risultati e l’umiltà di lavorare con impegno. Tornammo a casa con le braccia colme di cioccolatini, emozioni, complimenti, baci e di una bella coppa con i nostri nomi: il mio, Enrico, e di Maddalena!
Anche stasera per me essere qui è una grande emozione. Stento ogni volta a riconoscere il mio nome sul frontespizio della brossure che ha impresso il programma del concerto coi brani più tradizionali per violino e pianoforte, come piaceva a mia madre, e che eseguiremo stasera nella chiesa della Rotonda per la vigilia di Natale. Come sempre c’è mia moglie Maddalena ad accompagnarmi al pianoforte. E come sempre mi aspetto di vedere lì seduta in prima fila la mia maestra di musica. Ma da
stavolta non ci sarà. E non ci sarà neanche per i prossimi concerti della stagione. Perché lei ha raggiunto quelle sale da concerto celesti, sempre illuminate, radiose, piene di armonia, dove potrà insegnare a tanti bambini che saranno per sempre bambini, come fece con me, la bellezza eterna e sorprendente, mai scontata della musica.
Tra una settimana io prenderò il suo posto all’Accademia di musica. Mi ha fatto l’onore di regalarmi la sua scuola.
Lei aveva compiuto il miracolo in me. Era entrata nel mio mondo di bambino. Aveva avuto l’intero setticlavio musicale. Ma la più importante chiave lei l’aveva trovata dentro di sé. La custodiva in sé. La conosceva come nessuno. Lei sapeva che non era facile insegnare la musica a me. Perché io ero un bambino speciale. Ero un bambino sordo. E oggi sono un violinista. Bravo e amato.
Anche lei lo era. Una violinista. Brava e amata. E una persona sorda come me.
Lei mi ha insegnato il vero valore della frase consumata sulla musica come linguaggio universale, oltre ogni barriera, le lingue e le distanze.
Perché per noi la sordità non era una barriera ma un legame.
L’unione, l’emblema dell’universalità.
Lei mi ha insegnato a conoscere e a sentire la musica con le orecchie del cuore e dell’anima.
Conservo ancora gelosamente nel mio cassetto personale quel piccolo cuscino di velluto rosso che confezionò per me e che mi regalò al mio nono compleanno.
Lei, Modestina, era mia madre.
Margherita Pizzeghello
INSIEME NELLA NEBBIA
(a un figlio adolescente)
Non è acqua che mi scivola addosso
ma il tuo silenzio ruvido e secco
come foglia accartocciata
in questa stagione inaccogliente,
restia a sbocciare, filo d’erba
che rifiuta di spaccare la terra
e di aprirsi al pallido sole della vita.
Le tue risposte sillabate
sono ogni volta schiaffo
al mio desiderio di scuoterti
aprendoti gli occhi
e di abbracciarti stretto,
come quando mi dicesti
“Mamma, restiamo sempre
insieme tu ed io”.
Non è più questo il tempo delle carezze,
ma non è ancora quello di vederti
andare solo
tra le strade impervie della vita,
non sono ancora pronti i piedi
per tracciare nuove vie
e le dita per aprire porte ignote.
E quando la foga del mio cuore
non comprende il tuo grido d’amore silente,
allora sono parole urlate oltre l’insulto
e lacrime a stento trattenute
tra continui rimorsi
e speranze altalenanti.
Poi ritorna la notte e mi ritrova con te
tra le braccia, il tuo respiro calmo,
il tuo capo appoggiato ai sogni.
Accarezzo senza svegliare il bambino
che ancora è dentro di te,
come tu ti aggrappi a quella madre
che ancora ami, forse di più
anche se così diversamente.
E’ questa la luce che il cuore fissa,
ostinatamente, mentre procediamo
insieme nella nebbia
verso il tuo diventare uomo.
Paola Meroni
LA MUSICA DELLA VITA
Nonna cantava tutti i giorni. Era un rito. Ci riuniva ai piedi del grande castagno all’ora della merenda, precisa e non sgarrava di un minuto, e ci raccontava la sua vita. La povertà, la paura e la guerra che nonna Lina aveva superato con l’arma del coraggio.
La sua storia terminava sempre con una musica, che faceva stare bene, e che lei intonava per addolcire la crudezza di quello che aveva passato e per rendere il racconto più distante dalla realtà.
La musica era la sua grande passione. Era il sogno rimasto sigillato nel cassetto. Senza avere la chiave per aprirlo. I soldi scarseggiavano: era difficile mettere assieme un pranzo e una cena e non si potevano sprecare energie e risorse per un passatempo.
” Impara il mestiere per aiutare la famiglia. Serve anche il tuo aiuto per andare avanti e ormai sei grande e puoi dare il tuo contributo”. Erano state le parole del padre, che a 8 anni, senza un preavviso, la lanciava nel mondo. Il programma della giornata era completo: a scuola la mattina e il pomeriggio dalla sarta ad imparare a cucire.
In casa c’erano tre uomini, il padre e i due fratelli, e usare ago e filo era una necessità.
Diventò una brava sarta e anche mentre rammendava i pantaloni, cantava.
“Non rinunciare mai ai sogni. Anche se sono difficili da raggiungere, arriva il momento in cui una luce ti preannuncia che si avverano ed illumina la strada che si dovrà percorrete per tagliare il traguardo “. Mi diceva nonna, quasi ogni giorno, e accompagnava questa sua frase con il tocco lieve della mano sulla mia testa. Parole accompagnate ad una carezza, dolci come una melodia. Era diventato il nostro rito, che ci faceva felici.
Al castagno, l’albero dei racconti di nonna, passavo le estati con mio cugino.
Alla chiusura della scuola, lasciavamo la cartella per prendere in tutta fretta un borsone con vestiti, giochi e libri. Ci aspettava la campagna. Ci attendevano le corse nel prato, il saluto ai nuovi animali ed i sentieri con i fiori che coloravano ovunque. Ci aspettava una piccola, grande cosa: la possibilità di emozionarci e di vivere col cuore che batteva ad ogni scoperta.
La campagna avvolgeva una casetta di legno, protetta dal verde, dorata dal sole, che rendeva il mondo più fiabesco. Era la nostra dimora che ci accoglieva con un grande giardino, teatro dei nostri giochi e delle capriole del cane che ci seguiva e scodinzolava durante le nostre ” maratone” sotto gli occhi vivaci e attenti di nonna.
La nostra saggia ci guidava nei boschi e cantava. Partiva con una canzone che conoscevamo affinché la seguissimo con le parole.
Spesso, dopo il racconto della guerra e delle difficolta’ superate, mi chiedevo dove avesse trovato la forza ed il coraggio per andare avanti. E per vivere la vita, ogni giorno con la musica.
Erano domande che tenevo per me. Non so perché, ma nonna leggeva nel pensiero.
“Sai perché canto?- mi diceva seduta sulla grossa pietra sotto il castagno, mentre nel grembiule aveva una distesa di ciclamini-perché la vita è sempre bella e, anche se mette davanti al nostro cammino grossi macigni, si trova sempre il modo per continuare a camminare e non fermarsi. È la famiglia, la mia grande forza. La musica è come se fosse un ringraziamento alla vita. È un inno e la voglio celebrare”.
Alcuni giorni, invece, più seria, ci chiamava a raccolta prima del pranzo e ci insegnava come camminare sulla strada dell’esistenza.
” Nipotini miei siate sempre gentili e portate rispetto. Metteteci sempre un grazie in ogni cosa che vi viene data o che fate e in fondo alla frase attaccateci un sorriso. Non ci sta male! Fatemi essere sempre orgogliosa di voi”.
Il tempo è volato con il suo manto nero, ha nascosto le stelle e ha portato via nonna. Ci sono stati anni senza musica.
Sono tornata alla casetta di campagna. È chiusa da molto tempo e ragnatele e polvere ne hanno fatto il loro regno. Apro la porta e mi sembra di sentire nonna che canta in salotto, sulla poltrona, con il suo ago e filo, mentre cuce.
Le sue note fanno eco nelle stanze.
Mi soffermo sulla foto con la mia vecchia saggia al castagno. È l’ultima traccia, l’ultima immagine che resta dell’albero caduto dal peso del tempo e degli inverni rigidi.
Quanto ho sognato all’ombra di quell’albero. E quanti sogni ho portato avanti con una grande dose di coraggio.
Mi trovo a sorridere quasi dicessi:” Grazie nonna, non lo sai, ma ho imparato a cantare e a sentire la musica della vita”.
Gaia Simonetti
NEL BINARIO SEI VOLATA
A Beatrice Inguì¹
Quando cade la pioggia c’è un velo
di tormento nell’aria che offusca
immagini di campi beati e sorrisi
freschi, convinti che la vita sia bella.
L’acqua tinteggia di niente la pelle,
il ticchettio amplifica suoni cupi
-porte colpite e sputi d’intonaco-.
Nel binario sei scesa con sprezzo
satura d’offese, frecce di risa
e identità altra, che non ti veste.
Cali nel ferro e istanti tremendi
la tettoia che inganna, tenda di lutto.
Viscido e acuminato è il lemma
che fende e sventra l’essenza:
penetrando sottopelle, ha annegato
di rabbia i neuroni, trafitto i pensieri.
Sei scesa nel guizzo caparbio,
corpo già legato al niente;
l’impatto l’ha fatto multiplo;
nel puzzle non si sa mai come
anticipare l’inizio della forma
né ravvisare l’elemento di margine.
Odio a sfinimento è somma certa
agli artefici della banchina ultima.
Sei scesa non vista dal convoglio,
bronco d’acciaio che zigzaga
tra valli e ritorna al capoluogo.
Nel rito di sempre hai vidimato,
del paradiso l’accesso ti sia ampio!
La pioggia s’è sparsa: nei refoli lievi
tra l’aria sento il risucchio del ferro.
Lorenzo Spurio
1 La ragazza del torinese che nell’aprile del 2018 si buttò sotto un treno alla stazione di Porta Susa (Torino) a causa del profondo malessere derivatole da atti di bullismo.
COME MUSICA GITANA
Vibrazioni ossessive
di vita
in un giorno scottato dal sole.
Respiro lentissimo di mare.
Sirena di terra e di acqua
con gambe che fanno
nuotare e camminare.
Libera da bracciali da schiava
e da scomodi sandali col tacco alto,
nuoto nell’acqua nuda
sotto lo sguardo
sfrontato e pudico della luna.
Stanotte ballerò musica gitana,
libera e sensuale danzerò,
con un sorriso proibito,
sarò terra che ruota attorno al suo sole.
Gravida di vita,
di anima e carne,
griderò il dolore muto
dell’assenza e della separazione,
e con gli occhi di donna
ti parlerò della mia preghiera d’amore.
Gloria Venturini
LASCIA CHE SIA IL VENTO
Lascia che sia il vento dentro un respiro
a cogliere frammenti di giorni,
ritagli e sapori di silenzi
schiusi in cristalli d’attimi,
a inghiottire nell’azzurro
mantello di settembre
foglie sperse e ricordi
cosparsi di rugiada,
gelo di notti senza luna
e dimenticati accordi di stelle.
Lascia che sia il vento a dipingere
sorrisi ai confini del tempo,
incolti fiori d’istanti.
Sfiorano pensieri immobili luci,
tracce di nubi dissolte
fra vortici d’assetate ombre.
Fragili passi fra la sera e il cielo
…poi lascia che sia il vento…
Andrea Rossi
IL VIOLINISTA
Sporco il silenzio di suoni
e lo riempio di note.
Faccio musica
con il mio legno ricurvo appoggiato alla spalla.
E mentre suono
la nebbia gelata offusca le cose
e ricopre di bianco anche me.
Strade senza nome,
coriandoli ritrovati
nelle tasche di un vecchio cappotto,
e la gente passa,
mentre il tempo bastardo sgretola i sogni.
Crescono i cerchi e segnano gli anni.
Ma io non so fare altro.
E allora continuerò a suonare.
Piergiuseppe Gaido
OCCHI
Gli sguardi dei bambini violati sono fatti di pane raffermo
assorbono sprezzo da secche radici
allentano il fango ad un volo di mosche
deformano al suolo anche i suoni più puri
Gli sguardi dei bambini violati guidano veglie notturne
spodestano grezzi armonie di collina
ne strappano forza e bontà ai de profundis
trasportano rabbia al mezzadro sconfitto
Gli sguardi dei bambini violati inseguono estati assolate
il caldo e la sete ne fermano il passo
voraci zanzare ne pungono il corpo
paludi e acquitrini ne infangano il cuore
Gli sguardi dei bambini violati assaggiano rive piangenti
raccolgono lacrime ai salici antichi
asciugano scavi dei fossi a confine
accarezzano vigne lasciate a morire
Gli sguardi dei bambini difesi sono fatti di pane.
Di pane sfornato.
Bruno Bianco
A MEZZA COSTA
Come colorati ventagli leggiadre farfalle
si inseguono con desideri d’amore.
Nel verde della siepe calici colorati
concedono voluttuose corolle.
Sul mirto odoroso il calabrone
dal lucido corpo
riflette bagliori di sole,
con le sue ali traccia
suoni profondi in armonie di note.
Ai pini degradanti sul mare
ruba profumi il vento.
Agavi e ginestre protendono abbracci
sulla costa scoscesa.
Il silenzio nella luce del sole risparmia parole.
Aldo Passaro
A BOCCE FERME
(A mio Padre che non è più fra noi)
Per tre anni mi hai tenuto compagnia
nei lunghi pomeriggi a casa mia.
Indugiavamo un poco dopo pranzo,
poi si usciva a braccetto malsicuri.
Rammenti, Padre, la villa vicina,
verde e antica?
Eppur quanta fatica
per conquistare la prima panchina!
Quella sosta ansimante preludeva
al rito quotidiano delle bocce.
Ci spostavamo al campo per carpire
la magìa delle sfere in movimento.
Un tempo tu eccellevi in questo gioco:
non eri un bocciatore, andavi a punto,
però come puntuali le tue mosse!
Correvi dietro alla boccia giocata
quasi a volerla guidare con amore,
come seguisti i figli ad ogni passo.
A casa il tè delle cinque ci aspettava:
mistico rito, aromatica chimera
da assaporare in tandem lentamente
con i biscotti al cioccolato fuso…
Te ne sei andato una sera all’improvviso:
è vero, avevi già compiuto ottantott’anni.
Ma in questi orfani mesi intensamente,
Padre, io ti ho pensato ed il ricordo
più forte, l’emozione, sai, più ricorrente
è, a bocce ferme, quei tè confidenziali.
Quello che più mi manca è una tazzina
sorseggiata con te nella cucina.
Rita Nello
CRIÀ
Crià quande a muè o n’amigu
te lascian pe andàsene pe sempre.
Crià.
Crià quande sun sulu e marottu,
quande a miséia e-e guère nu finiscian mai.
Crià.
Crià vèrsu l’indifferensa
de chi ne stà d’ingiu.
Crià.
Crià anche se in gruppu ä gua
u ne pigge sensa raxiun aparente.
Crià.
Crià e cianze, cianze,
che nu l’è poi vergoegna.
Vittorio Biggi
IO M’INCHINO
M’inchino alla destrezza mentale
alle tue parole
ed ai tuoi occhi
che assaporano i miei frutti dolcissimi
e come un topo spaventato sopra al tetto,
mi lascio crescere le unghie
per grattare i dolori,
le lapidi
ed i sassi scagliati
e per poter raccontare
di trottole
di gabbiani, di angeli, di vita.
M’inchino alla mano
che ha scagliato i sassi,
che ha raccattato
stanchezza e lacrime,
ma m’inchino solo
per impugnare l’accetta
che la taglierà;
quella mano che lapida,
che impera
che deve soccombere.
Cristina Biasoli
LA SCATOLA
Guardai di nuovo il cielo,
come sempre era notte1,
chiuso da tutti quegli occhi2,
che, attenti, vigilano su di me.
Ma se i loro sono aperti,
i miei occhi sono chiusi.
Qualcosa doveva racchiuderli:
l’universo.
Ma chi raccoglieva la Scatola?
Una più grande contenuta in un’altra.
Di certo.
È più guardo fuori, più alto è il monte3.
Guardo in basso e sprofondo
nelle scatole più piccole4, ma consapevole del fondo
di là io sono partito
Ma continuo a cadere,
e mi rendo conto che non c’è una fine all’ inizio.
E mi sento vuoto5.
È un vortice che mi trascina verso un senso di inutilità,
ma mi sveglio e mentre apro gli occhi
mi accorgo che la Scatola li ha appena chiusi
Gianluca Scalera
PER UN CAPRICCIO DEL CIELO
(a Fabrizio De André)
Quando sarò poeta di vita
potrò rileggere fino in fondo i tuoi occhi
che ascoltavano la neve, oltre le nuvole vedevano
rimando leggero, con un graffio di voce arrivando
allo spazio infinito del cielo;
potrò riscrivere meglio una carta ora scucita, stupita
e avvinghiare i vestiti di note che davi svestiti
e i colori impastati di viole imprecisi nella loro bellezza reale.
Non miopi, non servi, i tuoi compagni;
con loro mescevi idee, cuori, versi
e mappe nuove imbastivi
carruggi di sale, pane, petali e donne
che inebriano l’attimo nell’aroma cangiante del mare
tra il vino e i canali gli odori urgenti
di vite vissute o solo accennate, spezzate.
La fame di libri è bagliore sbrigliato che cresce di notte
bocca che innamora chi la lascia tardi
s’insinua nel plettro che sdipana orizzonti, ricovera i gatti,
ricorda un barbone, descrive uno zingaro e uccide un giornale.
Quanta storia di te cantastorie rimanda a carezze
e assenze scovate nel tempo di un’ora,
scolpisce ingiustizie su un foglio che ascolta
assorbe e ridona parole e armonia:
carrozze di treni da prendere lenti,
viaggi, fermenti, rami di fiori nei venti.
Oggi la terra è sapida di innumeri umori
pagina che scava nel senso rosso di amori.
Si rifà le trecce e aggiunge un sospiro al prossimo sole.
Senza la tua voce. Per un capriccio del cielo.
Giuseppe Mandia